De le lettere nuꞷvamente aggiunte ne la lingua Italiana
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ƐPISTOLA DEL TRISSINO
de le lettere nuꞷvamente aggiunte
ne la lingua Italiana.
AL SANTISSIMO
NꞶSTRO SIGNORE
PAPA CLEMƐNTE VII
GIOVAN GIꞶRGIO
TRISSINO.
MOLT’ANNI SONO, Beatiʃʃimo Padre, che conʃiderando io la pronuntia Italiana, ε conferεndola con la ʃcrittura, giudicai eʃʃa ʃcrittura εʃʃere debole, ε manca, ε non atta ad εxprimerla tutta; il perchè mi parve neceʃʃaria cꞷʃa aggiungere alcune lettere a l’alphabεto; col mεço de le quali ʃi poteʃʃe a la nꞷʃtra pronuntia in qualche parte ʃovenire. Ɛ così in que tεmpi con l’ajuto di Dio vi l’aggiunʃi; come ne la Grammatica, ε Poεtica nꞷʃtra ʃi puꞷ apεrtamente vedere. Ma conciꞷʃia che quelle due operette non ʃiano anchora per alcuni nꞷʃtri rispεtti publicate, ε che io spinto da le perʃuaʃioni de gliamici habbia cominciato a mandare in luce queʃte lettere nuꞷve, εt uʃarle, hꞷ reputato εʃʃere convenevole cꞷʃa il fare, inʃiεme con l’uʃo, anchora la natura loro manifeʃta; acciꞷ̀ che ad un tεmpo, εt a coloro, che le vorranno uʃare, ʃiano nꞷte, εt a quelli, che le vorranno riprεndere, εxpꞷʃte. Ɛt apprεʃʃo mi ὲ parʃo ʃotto il nome di Vꞷʃtra Beatitudine publicarle; sì, perchè la prima vꞷlta, che queʃte lettere ʃi ʃono uʃate, ʃono ʃtate pꞷʃte ne la Canzone, che a quella donai; sì εtiandio, perchè εʃʃεndo quaʃi univerʃale opinione, che ʃotto il Pontificato di Vꞷʃtra Santità, non ʃolamente la chieʃia Romana, ma tutta la republica Chriʃtiana dεbbia ricevere lume, ordine, εt augumento; così parimente convenevole cꞷʃa mi pare, che ʃotto il felice nome di quella la pronuntia Italiana ʃia in qualche parte illuminata, εt ajutata. Le lettere adunque, che io primamente aggiunʃi a l’alphabεto, furono ε apεrto, εt ꞷ apεrto; Ɛ queʃto feci, perciꞷ̀ che εʃʃεndo in e, εt o lettere vocali due pronuntie, l’una piu piccola, ε piu chiuʃa, ꞷ vero piu corta, ε piu obtuʃetta, chε l’altra, com’ὲ a dir veglio, ε vεglio, mele, ε mεle, toʃco, ε tꞷʃco, torre, ε tꞷrre, ε ʃimili, mi parve neceʃʃaria cꞷʃa con qualche nꞷta moʃtrarlo; perciꞷ̀ che veglio quando vuꞷl dir vigilo, ε mele quando vuꞷl dir le poma, quel ve, ε quel me syllabe, hanno lo e di voce piu piccola, ε che ʃi pronuntia con la bocca manco apεrta, chε quando hanno quell’altro ʃignificato, che pꞷi ʃi dirà; Ɛ perὼ in queʃta ʃignificatione le ʃcriveremo con lo e conʃuεto, il cui charactέre dimoʃtra la pronuntia di detta lettera non εʃʃere molto apεrta. Ma quando pꞷi vεglio vorrà dire un hꞷmo attempato, ε mεle vorrà dire il mεle, che fanno le api, alhora ʃi ʃcriveranno per ε apεrto; il quale ε ʃe bεn nel Grεco piu tꞷʃto l’altra voce, chε queʃta dinꞷta, nondimeno a la natura de la preʃεnte pronuntia molto ʃi conviεne, per εʃʃere piu apεrto, chε ’l cancellareʃco. Ɛ così la pronuntia di queʃte parꞷle, ε di molte, ε molt’altre ʃarà con tal ʃcrittura manifεʃta. Similemente ʃi farà de lo o, perciὼ che pigliandoʃi Toʃco per hꞷmo Toʃcano, ε torre per uno εdificio alto, ʃεndo quel to de la piu piccola, ε meno apεrta pronuntia, ʃi ʃcriverà per lo o conʃuεto; ma quando ʃi prenderà tꞷʃco per veneno, ε tꞷrre per pigliare, ciꞷὲ infinito di tꞷglio vεrbo, alhora ʃi ʃcriverà per ꞷ apεrto; ε così faraʃʃi in tutte le prolationi de gli o, ε de le e; cꞷʃa, che ajuterà mirabilmente ad aʃʃeguire la pronuntia Toʃcana, ε la Cortigiana; le quali ʃεnza dubbio ʃono le piu bεlle d’Italia. Dopo queʃte viεn il z, il quale ha parimente due pronuntie divεrʃe; l’una de le quali tiεne alquanto del c, l’altra del g; com’ὲ a dir Zꞷccolo, Zꞷppo, Zecca, avezo; qui il z ha piu del c Lombardo, chε in Ʒona, Ʒoroaʃtro, Ʒεphiro, meço, ε ʃimili; ove ha piu del g. tal che a Bolꞷgna così nel vulgare, come nel latino quando il g ʃi truꞷva avanti e, ꞷvero i, ʃi pronuntia per queʃto ʃecondo ç; com’ὲ virgines ʃi pronuntia virçines, ε generoʃo çeneroʃo, ε ʃimili. Ɛ perὼ, quando la pronuntia del z ʃarà ʃimile al c, la ʃcriveremo per lo z conʃuεto; com’ὲ Zꞷccolo, belleza, spεzo, ε ʃimili. pꞷi, quando ʃarà ʃimile al g, ʃi ʃcriverà per queʃto altro charactέre ç; come ὲ Ʒεphyro, meço, reço, ε ʃimili. Nε mi ὲ naʃcoʃo, che ritrovandoʃi parimente queʃta pronuntia divεrʃa, ε con divεrʃi charactέri ʃcritta ne la lingua Spagnuꞷla, che eʃʃi uʃano i charactέri a l’oppꞷʃito di quel, che facc’io; ciꞷὲ uʃano il z commune, quando la pronuntia ὲ ʃimile al g, ε quando ὲ ʃimile al c uʃano l’altro; ma noi habbiamo trammutato quell’uʃo; non tanto pεrchè queʃto ʃecondo charactέre ʃia piu ʃimile al g, quanto per fare manco innovatione; perciὼ che ’l ʃuꞷno del z ʃimile al g ʃi truꞷva in molto manco parꞷle, che l’altro; donde averrà, che eʃʃo ç simile al g piu rare vꞷlte ʃi ʃcriverà; il perchè apparerà la innovatione minore. Ɛ veramente il ʃuꞷno di queʃta lettera ha dato che penʃare a molti; la onde alcuni, per ʃeparare tal differεnte ʃuꞷno, hanno ʃcritto il ʃuꞷno del z ʃimile al c per dui zz, ε l’altro per uno ʃolo z, differεntia veramente impertinεnte; perciὼ che, per εʃʃere il z lettera duplice, non ʃi puꞷ geminare. ma poniamo anchora, che contra ꞷgni rεgola lo voleʃʃeno fare; ε voleʃʃeno anchora, che la geminatione mutaʃʃe alquanto il ʃuꞷno de la lettera, che non fa; cεrtamente non ʃi gemina lettera niuna ne’ principii de le parꞷle; come adunque ʃi conoʃcerà la differεnte pronuntia da Zꞷccolo a ʒona, da Zꞷppo a Ʒoroaʃtro, ε da Zecca a Ʒεphyro, ε ʃimili? cεrto ʃarà impoʃʃibile, ʃenon per charactέre divεrʃo; come noi habbiamo fatto. Bεn hꞷ advertito, che ne la Marca Trivigiana, ε fꞷrʃe altrove, ʃεmpre ʃi pꞷngono queʃti dui charactέri nel’A, B; l’uno de li quali dimandano zea, ε l’altra çeta; il che dimoʃtra, che ivi anticamente havevano queʃta differεntia, la quale hꞷra ὲ confuʃa. Apprεʃʃo ci ha parʃo di notare anchora la differεntia, che ὲ tra lo i, ε lo u, quando ʃono conʃonanti, ε quando vocali; Ɛ perὼ, quando ʃaranno vocali, si ʃcriveranno per le conʃuεte cancellareʃche; ma, quando ʃaranno conʃonanti, lo i ʃi ʃcriverà per uno j lungo, che ʃi εxtεnda di ʃotto da la riga, ε lo u per uno v antico. Ɛt avegna che la differεntia di queʃte due ultime lettere ʃia neceʃʃaria in pꞷche parole, come in uꞷpo, lacciuꞷli, figliuꞷli, ε ʃimili, ove lo u vocale per conʃonante lεggere ʃi potrεbbe, tal che la vera pronuntia ʃi turberεbbe, pur ci ha parʃo utiliʃʃima cꞷʃa il diʃtinguerle. Adunque le lettere, che habbiamo diʃtinte, εt a l’alphabεto aggiunte, ʃono cinque; ciꞷὲ tre di grandiʃʃima neceʃʃità ε apεrto, ꞷ apεrto, ε ç obtuʃa, ꞷver ʃimile al g; ε due di neceʃʃità minore; ma di diʃtintione, εt utile aʃʃai; ciꞷὲ j conʃonante, εt v conʃonante; le quali tutte hanno le loro majuʃcule, che ʃono Ɛ, Ꞷ, Ʒ, J, V. Pare, che anchora ne la pronuntia de lo s qualche differεntia ʃi truꞷvi, la quale con uno s ʃolo, ε con dui ʃʃ ʃi diʃtingue; avegna che non ʃi pꞷʃʃa per tutto ʃupplire; come in riʃano, riʃꞷlvo, ε ʃimili, a che ʃi potrεbbe perὼ facilmente provedére; ma io hꞷ lasciato queʃta differεntia, εt alcune altre da canto, per non εʃʃere cꞷʃa di molto momento; sapεndo anchora, che così la trꞷppa diligεntia, come la pꞷca si ʃuꞷle, alcune vꞷlte biasmare. Hꞷra queʃte tali nuꞷve lettere ʃono ʃtate qui in Roma meʃʃe in ꞷpera per Lodovico Vicentino; il quale ʃi come nel ʃcrivere ha ʃuperato tutti gli altri de l’εtà nꞷʃtra; così, havεndo nuꞷvamente trovato queʃto belliʃʃimo mꞷdo di fare con la ʃtampa quaʃi tutto quello, che prima con la penna faceva, ha di belli charactέri ꞷgni altro, che ʃtampi, avanzato. La onde aʃcrivo a non pꞷca felicità di queʃte nuove lettere, l’εʃʃere ne la città di Roma fatte; ε da così εxcellεnte maeʃtro lavorate; ε ʃotto così divino, εt admirando Principe publicate. Ma ʃe alcuni pur ʃi troverranno di ʃi ʃvogliato ʃtꞷmacho, che vogliano queʃta nuꞷva ʃcrittura dannare; non credo perὼ, che queʃti tali ʃiano di tanta arrogantia, nε di ʃi pꞷco ʃapere, che ardiʃcano di dire, ch’elle non ʃiano a la diligεnte pronuntia Italiana neceʃʃarie. Ma alcuni di eʃʃi fꞷrʃe diranno, che non li piaccia l’innovare, altri, che tale divεrʃa pronuntia ʃi potrεbbe per qualche altro piu facile mꞷdo manifeʃtare; a li quali rispondεndo dico. Ɛ prima a quelli, che dicono, che non li piace l’innovare, dimando, ʃe eʃʃi pꞷrtano le vεʃte, ε fanno tutte l’altre cꞷʃe, come facevano i padri loro; ꞷ pur vanno ꞷgni giorno, ʃecondo i tempi, εt il biʃꞷgno, molte cꞷʃe innovando; Ɛt anchora li dimando, ʃe ʃanno, che ne le loro città molte arti, molti coʃtumi, ε molte leggi ʃiano ʃtate alcuna vꞷlta innovate. Se adunque non ʃolamente nel vivere privato, ma ne le arti, ne i coʃtumi, ε ne le leggi publiche tutto ’l giorno s’innuꞷva; perchè non ʃi dεe fare queʃto medeʃimo ne la ʃcrittura? la quale ὲ demoʃtratrice, ε conʃervatrice de i nꞷʃtri concεtti; maʃʃimamente in tale, ε così εvidεnte neceʃʃità. Non ʃanno eglino, che tutte le arti, ε tutte le discipline ʃono venute a la perfectione loro per lo aggiungere, εt innovare? Ɛ chi non ʃa, che ʃe Palamεde, Simꞷnide, ꞷ Ɛpicharmo non haveʃʃeno aggiunte altre lettere a quelle, che recὼ Cadmo di Phenicia in Grεcia, che quella belliʃʃima lingua non ʃarεbbe a la perfectione, che venne, venuta. Ɛ ʃe Cεrere non haveʃʃe trovato il formento, nε Ɛurialo, εt Hipεrbio haveʃʃeno moʃtrato il mꞷdo di fare le caʃe di mattoni, nε Dꞷxio di tεrra, nε niun’altro dópo loro haveʃʃe innovato, fꞷrʃe che la generatione humana anchora habiterεbbe ne le cavεrne, ε ʃi paʃcerεbbe di giande. Ma a queʃti tali non vꞷglio molto lungamente rispondere; perciὼ che ꞷgni giorno ne le cꞷʃe loro innovando condannano ʃe medeʃmi. Ɛ pꞷi contra loro tutta la antiquità grida, havεndo gl’inventori de le buꞷne cꞷʃe non ʃolamente ʃopra gli altri hꞷmini honorati; ma per Dεi alcuna vꞷlta adorati. Rεʃta a rispondere a quelli, che dicono; che tale divεrʃa pronuntia ʃi potrεbbe per qualche altro piu facile mꞷdo mostrare; ciꞷὲ per punti, ꞷ per accεnti; a li quali dico che i punti, ꞷ gli accεnti ʃarεbbono manco intellegibili, ε piu pericoloʃi a pεrderʃi, che non ʃaranno queʃte lettere, che havemo fatte. Ɛt apprεʃʃo affermo, che la prolatione de i ʃuꞷni de le vocali dεe εʃʃere cꞷʃa divεrʃa da gli accεnti; (come ne la lingua Grεca ʃi vede; da la quale ὲ la Latina, ε la Italiana diʃceʃa) perciꞷ̀ che εʃʃεndo la voce aere percꞷʃʃo, viεne ad εʃʃere cꞷrpo; il quale ha tre dimenʃioni; ciꞷὲ lungheza, largheza, εt alteza; Ɛ perὼ ciaʃcuna syllaba ha tutte tre queʃte qualità; ciꞷὲ lungheza, ꞷ brevità; craʃʃitudine, ꞷ tenuità; εlevatione, ꞷ depreʃʃione; le quali cꞷʃe ʃi ʃegnano con divεrʃi accεnti; ciꞷὲ la lungheza, ε brevità con tεmpi; la craʃʃitudine, ε tenuità con spiriti; la εlevatione, ε depreʃʃione con tuꞷni; le quali cꞷʃe εʃʃεndo da la prolatione, ε ʃuꞷno de le vocali divεrʃe, manifeʃta cꞷʃa ὲ, che eʃʃa prolatione del ʃuꞷno non puꞷ εʃʃere accεnti; ʃe bεne i tεmpi, εt altre cꞷʃe le accompagnano. Ma poniamo, che queʃta prolatione nel e, εt o pur voleʃʃeno contra ꞷgni rεgola ʃegnare con accεnti, come faranno nel z, che non ὲ vocale? cεrto non ʃꞷ. ma bεn mi perʃuado, che il deʃcrivere queʃta diverʃità di pronuntia per punti, ꞷ per accεnti, oltre che farεbbe qualche confuʃione, ʃarεbbe anchora piu difficile ad imprεndere, che non ὲ queʃta; la quale ὲ aʃʃai facile, ε non impediʃce il lεggere a niuno. Pur, ʃe queʃti cotali ne la loro opinione oʃtinati ʃaranno, facciano la pruꞷva del mꞷdo loro; εt úʃinlo; ε noi uʃeremo il nꞷʃtro. il quale ci farà al manco queʃta utilità, che dimoʃtrerà la pronuntia, ch’io ʃeguo; perciὼ che in molti vocaboli mi parto da l’uʃo Fiorentino, ε li pronuntio ʃecondo l’uʃo Cortigiano, com’ὲ hꞷmo dico, ε non huꞷmo; ꞷgni, ε non ogni; compꞷʃto, ε non compoʃto; fꞷrʃe, ε non forse; hꞷr, ε non hor; biʃꞷgna, ε non biʃogna; vergꞷgna, ε non vergogna; spoʃa, ε non spꞷʃa; lettera, ε non lεttera; sꞷgno, ε non sogno; Rεgno, ε non Regno; ʃεnza, ε non ʃanza, εt alcuni altri ʃimili; come ne la nꞷʃtra Sophonisba ʃi puꞷ vedere. In alcuni altri vocabuli pꞷi ʃono quaʃi chε trꞷppo Fiorentino; come ὲ porre dico, ε non pꞷrre; poʃe, ε non pꞷʃe; meco, ε non mεco; ε così dico teco, ʃeco, me, te, ʃe; ε non tεco, ʃεco, mε, tε, ʃε; εt anchora leggie, tiεpido, allegro, debile, ʃtεtte, diʃio, ʃicuro, cuꞷre, εt altri molti ʃimili; come ne la predetta Sophonisba ʃi vede; ne la quale tanto hꞷ imitato il Toʃcano, quanto ch’io mi penʃava dal rεʃto d’Italia poter εʃʃere facilmente inteʃo; ma, dove il Toʃco mi parea far difficultà, l’abandonava, ε mi riduceva al Cortigiano, ε commune. Il che quanto io habbia ʃaputo fare al giuditio d’altri ʃtarà; io cεrtamente l’hꞷ tentato. Ɛ bεn conoʃco εʃʃere alcuna vꞷlta trꞷppo al Fiorentino accoʃtato, come ὲ nel iε diphtonga; la quale ʃεmpre hꞷ ʃcritta per ε grande ʃecondo la pronuntia loro; come viεne, ʃiεde, piεde, ciεlo, piεno, ε ʃimili; il che ne la maggior parte d’Italia non ʃi fa; εt anco apὼ loro non ὲ piεnamente grande, εt apεrta; ma declina vεrʃo la chiuʃa; la cui mediꞷcrità ʃaperanno ꞷttimamente tenere i diligεnti. Ɛ parimente ʃi farà ne la pronuntia de lo uꞷ diphtonga; la quale non ὲ grandemente apεrta; εt io pur per l’apεrto l’hꞷ ʃcritta; ʃeguεndo, come hꞷ detto, la pronuntia loro. Ɛ così in alcun’altre cꞷʃe hꞷ fatto; perciὼ che giudico manco riprenʃibile peccato l’accoʃtarʃi trꞷppo al Toʃcano, chε ’l diʃcoʃtarsi trꞷppo da eʃʃo. Queʃto adunque, che ὲ detto fin qui, baʃterà quanto a la cognitione de le lettere nuꞷve, εt a la ragione, εt uʃo di quelle; le quali ʃe ʃaranno approbate, εt accettate da alcuni dꞷtti, harὼ molto caro; ε ʃe anco averrà, che fiεno da la moltitudine rifiutate, non mi ʃarà di grave nꞷja; ʃapεndo, che la maggior parte de glihꞷmini inεxpεrti fuggono la innovatione; perciὼ che non iʃtimano, che altro ʃtia bεne, chε quello, che eʃʃi fanno; εʃʃεndo anchora quaʃi natural coʃtume di ʃeguire piu tꞷʃto i vitii communi, chε le virtù particulari.